L’assegno di divorzio, previsto dall’art. 5 comma 6 della Legge n. 898/1970, trova la propria ragione di esistere nello scioglimento definitivo del vincolo matrimoniale.
Questo assegno ha natura complessa in quanto racchiude in sé varie caratteristiche: una componente assistenziale, per cui è necessario valutare il pregiudizio che può causare ad uno dei coniugi lo scioglimento del vincolo matrimoniale; una componente risarcitoria, per cui bisogna accertare la causa che determina la rottura del rapporto; una componente compensativa, per cui è necessario valutare gli apporti di ciascun coniuge alla conduzione familiare. L’assegno può essere concesso quando sussista anche una sola di queste tre componenti.
Fino a qualche giorno fa, la giurisprudenza è stata costante nell’affermare il principio per cui, normalmente, il versamento dell’assegno divorzile veniva riconosciuto ad uno dei coniugi poiché questi aveva diritto di mantenere lo stesso tenore di vita avuto in costanza di matrimonio.
La Suprema Corte, dopo quasi trenta anni, ha ritenuto che il parametro del tenore di vita goduto durante il matrimonio non possa essere più considerato un orientamento “attuale”: con la sentenza di divorzio, il rapporto matrimoniale si estingue non solo sul piano personale ma anche economico-patrimoniale sicché, ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo, sia pure limitatamente alla dimensione economica del tenore di vita matrimoniale in una indebita prospettiva di ultrattività del vincolo matrimoniale.
Gli Ermellini, con la sentenza n. 11504 del 10.05.2017, hanno rivoluzionato il diritto di famiglia in tema di riconoscimento dell’assegno divorzile e dei criteri per la sua quantificazione. La Cassazione ha cambiato il criterio per riconoscere l’assegno al coniuge economicamente più debole e ha stabilito che, nella determinazione dell’assegno, conta il criterio dell’indipendenza o autosufficienza economica, non il tenore di vita goduto nel corso delle nozze (criterio questo confermato per l’assegno di mantenimento in sede di separazione – sentenza Cassazione del 16.05.2017 Berlusconi c. Lario). Il matrimonio, da questa pronuncia in poi, cessa così di essere “sistemazione definitiva”: sposarsi, scrive la Corte, è un “atto di libertà e autoresponsabilità”.
Una rivoluzione, a cui la Cassazione è arrivata con la sentenza commentata, relativa a un divorzio “eccellente” tra un ex ministro e un’imprenditrice. I supremi giudici hanno respinto il ricorso con il quale la signora reclamava l’assegno di divorzio già negatole dalla Corte di Appello di Milano che, nel 2014, aveva ritenuto incompleta la sua documentazione reddituale e valutato che l’ex ministro, dopo la fine del matrimonio, aveva subito una “contrazione” dei redditi.
Giuristi, avvocati matrimonialisti e addetti ai servizi si chiedono se questa sentenza possa costituire una pietra miliare o se i principi in essa declamati verranno ribaltati dall’applicazione quotidiana nelle Corti di merito. Il fatto è che il Supremo Collegio ha voluto porre un freno ad una prassi diffusa nei “divorzi all’italiana” in cui uno dei coniugi approfitta in modo subdolo di una situazione di ridotta “capacità patrimoniale” per poter godere di un trattamento assistenziale eccessivo e sproporzionato rispetto al reale bisogno.
Le vicende delle coppie italiane e, quindi, la concreta applicazione dei principi enunciati dalla sentenza in commento, consentiranno di valutare se questo fondamentale orientamento giurisprudenziale diverrà una costante del nostro ordinamento.
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